La contemplazione del Mistero in “Buffa ombra” di Ciro Sorrentino

Buffa ombra dalla raccolta “a Sylvia Plath”

 

In questa notte di luna

tutto tace – le rose

sono seppellite

dal silenzio di neve.

 

Si smorzano le luci

sulle pareti dell’anima,

assorta e viva

nella quiete morente.

 

Ti sento…

 

Sento il tuo dolore,

la voce del cuore,

l’onda di sangue

che riempie le sfere.

 

Incupiscono le nubi,

la pioggia bagna

le mani e il petto

come veleno che uccide.

 

Ti vedo…

 

Vedo il tuo corpo,

sacrificato cero

che si consuma

sull’altare che chiama.

 

Dono a te il mio sorriso

– stilla d’amore

per le tue labbra,

immobili cigli di statua -.

 

Non ti offro illusioni,

né rose o fiori di piombo,

la tua pura natura

cerca eterna armonia.

 

Ti offro il mio sorriso.

 

Sorridi a me che ti vedo,

anima candida,

sorridimi sempre

nelle sfumature d’ignoto.

 

Sorridimi in silenzio,

delicata farfalla,

sorridi al cuore

di questo misero poeta.

 

08.04.2013 Ciro Sorrentino

 

I primi versi, in accordo con il titolo “buffa ombra“, lasciano intendere subito che il poeta sta osservando non già il cielo, ma la sua ombra che da luce di luna allunga davanti a lui.

 

Nel suo peregrinare, al suo passo lieve e impercettibile si mescolano riflessi “luminosi” di un silenzio sublimato, magico, surreale: sono atmosfere che avvolgono ogni elemento visibile e sonoro, riempiendo il Tutto di una pace senza tempo.

 

Eppure in queste sfumature apparentemente sinuose e lievi, ancora una volta, il poeta maschera un gelo che stravolge e irride, un silenzio che ghiaccia e pietrifica la terra sulla quale cammina: “un silenzio di neve”  ha coperto ormai i fiori vermigli, le “rose” e di esse ha assorbito la vita, interrandole sotto lastre pesanti di ghiaccio.

 

Sorrentino non percepisce più odori e fragranze di vita, i petali sono lontani e perdute gocce di un sorriso spento, di una luce che cade come cadono le lucciole quando giunge la loro ora, l’appuntamento con la nave dell’aldilà.

 

Si osservino i chiaroscuri, creati di proposito, per significare l’amarezza e la pena, il tormento nel non poter intervenire per riaccendere il respiro della vita e la luce, il flusso di sangue che lentamente ed inesorabilmente scivola via dall’anima, mentre è tutta presa nell’estasi, nella contemplazione del Mistero che la estranea dal mondo.

 

L’anima, quell’entità che sembra indecifrabile, per Sorrentino è imperitura ed eterna, prova ne sia che quella “quiete morente” non è la morte ma è il silenzio che ha termine: a morire è l’orrido silenzio, e l’anima sorge e fiorisce da questo mutismo di cosa, dall’atonia dilagante che imperversa e sacrifica la vita.

 

E in tale contesto, in una zona d’universo parallelo, Sorrentino ascolta i soffi di vita di Sylvia Plath, ne coglie le parole d’amore infinito, un amore prezioso e non visibile, l’amore di Dio che in lei si è espanso.

 

Un amore che è insieme gioia e dolore, bianco e nero, pienezza e vuoto, perché solo un tale ossimoro rappresenta il Creato, i due poli estremi che, fondendosi, hanno generato la molteplicità policroma dell’esistente.

 

In questa “percezione” il poeta si ritrova con Sylvia e di lei avverte la purezza e la magnificenza, quel flusso di vita, il vermiglio sangue che percorre in assoluta perfezione gli infiniti spazi di altrettanti infiniti cieli, in una “circolarità”, come Cinzia de Rosis, in altro articolo ha giustamente sostenuto, che è senza fine.

 

Il silenzio, di cui si diceva nella tesi iniziale, è dunque interrotto definitivamente; ora le nuvole picchiettano la terra dove passa il poeta, questa transitorietà terrena, questa ripetitività ciclica percuotono la coscienza, ma, a ben considerare, la svegliano dalle visioni dogmatiche e dalle credenze fideistiche, quest’acqua non è già un “veleno”, è una pioggia che scioglie le morte forme, le incrostazioni, le maschere che oscurano invece la comprensione del tutto.

 

Da questo lavacro Sorrentino vede Sylvia Plath, sembra quasi ripercorrere il momento in cui la donna/eroina si consuma nei sui ultimi istanti di vita, come una candela tremolante che è giunta al termine.

 

Ma si noti come Sorrentino sottolinei la funzione dell’altare che invoca Sylvia, la cerca, cerca colei che aveva compreso e che al tutto e del tutto voleva ritornare ad essere partecipe.

 

A questa donna/poeta/profeta, Sorrentino sorride, invia il suo messaggio, anche lui ha compreso, ha visto sulle sue labbra scorrere parole che magnificano la verità.

 

E quale modo migliore di immortalare la voce di Sylvia se non nella solidità marmorea di una statua, su quegli orli di rosse labbra che, nella loro fissità, decantano e decanteranno sempre il significato profondo e il mistero cosmogonico.

 

 

A Sylvia, Sorrentino non reca illusioni e chimere, non mostra debolezze umane, né quegli artifizi che lei decise di rifuggire: offre una “comprensione”, la stessa che lei cercava.

I fiori sarebbero solo zavorre, altre incrostazioni e fittizi simboli di questo mondo che possono solo lasciare intendere un oltre, ma non mostrarlo.

 

Il fatto è che gli uomini usano i fiori per ben altri scopi, li porgono per sinistri fini ed interessi egoistici che esulano da ciò che essi rappresentano: schizzi di purezza, transitori sprazzi di un sorriso divino.

 

 E questo sorriso, che fu già ed è di Sylvia Plath, Sorrentino lo porta in sé e a lei lo offre, lo porge all’anima candida che gli ha mostrato la via, il suo riflesso d’eterno scorrere.

 

Sylvia Plath è, dunque, specchio della sua anima, del suo morire e rinascere libero.

 

La chiusa ricompone la “circolarità”, ritorna il silenzio, la quiete d’amore, la perfezione sferica nella quale il poeta si era ritrovato e per la quale aveva iniziato questo suo canto di rinascita, il viaggio della conoscenza oltre i confini del mondo.

 

13/04/2014 dipartimento di lettere e filosofia, prof. Attilio Beltrami

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1 Commenti

  1. Cinzia de Rosis Scrive:

    Grandiosa analisi, …elegante e giusto tributo a Sylvia Plath, risorta nei versi di Ciro.
    Cinzia de Rosis

    ... on July aprile 14th, 2014

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