L’Esclusa (1893)
i. L’Esclusa (1893)
Nel suo primo, romanzo “L’Esclusa” (1893), Pirandello avvia una sperimentazione delle tecniche in uso, dei modelli e dei registri narrativi e, confrontandosi con i moduli e le forme, il repertorio del naturalismo, scopre, nei presupposti teorici ed artistici di quel movimento, una sostanziale inadeguatezza a rappresentare la disarmonia della realtà e le complicazioni psicologiche e morali dell’essere umano.
E’ chiaro che, per la sensibilità di Pirandello, la sola e parziale opzione descrittiva, la trascrizione obiettive dei fatti, la pretesa impassibilità dei teorici del naturalismo, non sono le modalità adeguate per poter esprimere la sofferenza e la pena, il dolore e l’inquietudine del personaggio, il cui dramma può essere compreso soltanto nella misura di una scrittura più immediata e spontanea, modulata sui ritmi di una intensa e seria disposizione ironica, su toni carichi di intensità dialettica e di forte tensione umoristica.
I risvolti assurdi, grotteschi e paradossali, scelti dallo scrittore per frantumare la sequenza delle azioni, sono, in effetti, strumenti, modi e occasioni, per denunciare la logica astratta del determinismo naturalistico, che, sulla base di un rapporto astratto, della relazione di causa – effetto, pretende di poter ordinare e controllare l’irriducibile complessità delle vicende umane.
“L’Esclusa” documenta, dunque, lo studio, l’impegno, la volontà di cercare soluzioni ed alternative linguistiche, procedimenti idonei a scoprire gli errori e gli arbitri di una società, che non perde mai l’occasione per offendere l’io profondo e segreto in coloro che cercano di sfuggire alla stretta fatale di un mondo spietato, che si scopre ormai irrigidito nella falsità delle sue forme.
Sotto accusa è la società della diffidenza e dei pettegolezzi, che, per effetto di una sedicente e infida moralità, condiziona le azioni e i comportamenti dell’uomo, provocando scelte forzate, ingiuste ed insensate, come avviene a Rocco Pentagora che sulla base di una dubbia circostanza, decide di separarsi dalla moglie.
Questa logica assurda, fatta di gratuiti e ingiustificati sospetti, coinvolge Francesca Ayala, che, dopo aver messo da parte il suo intimo e naturale affetto di padre, ritenendo necessario porre rimedio al disonore, provocato alla sua famiglia dalla presunta trasgressione della figlia, si lascia morire nel buio di una stanza.
Nella scelta di Francesca Ayala si scorge la desolazione e lo sconforto dell’uomo, che, senza più un’idea logica e immarcescibile della vita, si strugge nel pensare alla eventuale infrazione di Marta.
Secondo una falsa morale delle consuetudini, anche Marta dovrebbe cedere, patire, accettare l’esclusione e segregarsi per quanto accaduto, come se avesse di fatto violato le norme statuite dall’uso e incrinato l’integrità del matrimonio.
Ma, uno strenuo e audace impulso primario, sollecita e anima la coscienza della donna, che, nella sua traversia, nella rinunzia e nell’apostasia delle forme, scopre quanto sia difficile sottrarsi alla doppiezza e alla ipocrisia, alla tendenziosità delle norme e dei codici, all’infingimento dell’opinione pubblica.
Nell’inevitabile contrasto con la società e nella lotta condotta per eludere i vincoli asfissianti e terribili della vita associata, nasce il dramma di Marta Ayala, l’esclusa, la donna vittima dei pregiudizi, che, seppur in maniera primitiva e poco sicura, rispetto alla superiore e assoluta determinazione della coscienza, delle più alte e compiute figure pirandelliane, tende ad assumere comportamenti singolari, inconsueti, non ordinari.
In questo ancora informe e implicito rifiuto del qualunquismo, Marta mostra, una inconsueta intraprendenza, una insolita determinazione ad agire, che incrina la presunta logica degli eventi.
Questa prima reazione ideologica, culturale e linguistica, anche se ancora vissuta, in maniera istintiva e confusa, mette in risalto, nel personaggio, il dissidio tra la superficialità dei rapporti sociali e la profondità delle emozioni del singolo individuo.
E’ indiscutibile il fatto che la donna diventa il testimone chiave per denunciare i soprusi di una società incongruente, che dopo aver ingiustamente ritenuto colpevole una persona innocente, la scagiona quando, ormai, la stessa, travolta dalle circostanze, ha ceduto alle insidie della vita.
E’ questa un’evidente svolta umoristica, annunciata da una conclusione inusuale e inattesa, che, nella rigida concatenazione degli eventi e dei fatti, scopre fattori imprevedibili, violazioni e anomalie che sovvertono l’ordine degli eventi.
Anche se in questo romanzo l’aspetto drammatico si lega più ad un sovrapporsi di circostanze, piuttosto che al mondo interiore del personaggio, è da rilevare che l’esperienza dolorosa, vissuta da Marta, la rende davvero un’estraniata, le trasmette intuizioni di una vita altra, le fa capire che esistono possibilità e alternative diverse, rispetto alla mediocrità dei rapporti umani.
La verità, l’innocenza, il senso del giusto sono le virtù perdute, inseguite con costanza e mai afferrate dal personaggio, sono speranze e valori traditi, verso i quali Marta tende i suoi sforzi, rappresentano, in definitiva, uno stato d’equilibrio, la condizione necessaria, per sentirsi pronti a superare l’intuito e sempre nascosto malessere, l’angoscia e il tormento, la pena e l’umiliazione di non essere compresi e accettati.
Una fitta e complicata trama di rapporti sociali condizionano, infatti, la vita del personaggio, segnando, in maniera decisiva, la sua storia personale e privata, una storia che si sviluppa come un susseguirsi di incomprensioni, di delusioni e amarezze che influenzano il suo mondo interiore.
La storia di Marta, piuttosto che richiamare l’attenzione sui motivi, sulle cause, sulle conseguenze terribili, di un contrastato rapporto sentimentale, suscita interesse proprio per le problematiche affettive e sociali, per la posizione e il ruolo della donna, per il suo diritto ad essere riconosciuta come persona.
Marta è il simbolo di una insoddisfatta voglia di giustizia, è la povera vittima, la sventurata che, attraverso la sua agitazione e la sua tenacia, esprime forte la volontà di essere legittimata dalle norme, cerca una possibile integrazione e riabilitazione nella famiglia e nelle strutture sociali.
Nella condotta di Marta, è palese l’intenzione di riformare tutto un sistema, che, attraverso le sue evidenti disattenzioni, opprime e umilia la libertà della persona.
Marta vuole reinserirsi nella società e, con questo fermo proposito, riesce ad ottenere un lavoro come insegnante e a sostenere economicamente la madre e la sorella, sottraendo così la famiglia all’inevitabile e progressivo decadimento.
Una sostanziale e naturale predisposizione alla verità, alla lealtà, alla trasparenza, muove Marta che, offesa dalla falsità e dalla convenzionalità degli uomini, si agita e si tormenta, e che, in quanto vittima dei soprusi del sistema, diventa il testimone offeso dagli espedienti e dalle finzioni, dagli artifizi scelti e istituiti da una società che non si preoccupa delle ragioni profonde dell’essere.
Il personaggio, sempre più solo e disperato, non riceve nessun tipo di conforto e pace da chi gli sta intorno, ed anzi, si ritrova ad essere l’escluso di una umanità chiusa, insensibile, per niente capace di ascoltare le attestazioni e le richieste di aiuto, lanciate dalla coscienza di chi, povero martire, sopravvive in una mediocre e squallida realtà.
E’ questo, se non ci inganniamo, il messaggio ultimo del romanzo, primo e sofferto documento della produzione narrativa di Pirandello, nel quale realismo e lirismo si fondono nella forma assoluta del tragico, ed è questo il primo atto di accusa, la denuncia formale della degenerazione psicologica e morale della società.