Quaderni di Stefano Gubbio operatore (1925)

vi.      Quaderni di Serafino Gubbio operatore (1925)

 

Nel romanzo “Quaderni di Serafino Gubbio operatore” (1925), Pirandello osserva come la vita sia travolta dalla logica negativa del progresso, che riduce la realtà ad un continuo scorrere di fotogrammi slegati e privi di senso.

La civiltà delle macchine e, nel caso del protagonista, la cinepresa, offendono la creatività dell’operatore che, ridotto a passivo riproduttore di morte immagini, si limita ad osservare e a non poter commentare la vita.

L’impassibile silenzio di Serafino dipende dalla consapevolezza dell’impossibilità di comprendere e di poter pronunciarsi in modo univoco e definitivo sulle vicende umane.

Ma questa impassibilità è altro dall’indifferenza, anzi il mutismo esasperato e radicalizzante diventa motivo di riflessione sulle cause e sui fattori sociali che complicano la vita e che, limitando le possibilità d’essere di ciascuno, costringono l’individuo a scelte estreme.

Con i “Quaderni di Serafino Gubbio operatore” l’estrema e serrata analisi umoristica, con la quale Pirandello ha sgretolato tutti i miti, giunge alle sue ultime conseguenze, al distacco di tanto silenzio, all’impossibilità di poter esprimere un giudizio certo e verificabile sullo scorrere degli eventi.

E svanita ogni pretesa di comprensione della realtà, la vita stessa, perduta ogni coerenza razionale, si riduce a un susseguirsi di scene, che solo nello spazio magico del teatro possono significare il dolore e lo sconcerto della coscienza.

Nella nuda semplicità ed essenzialità del teatro, Pirandello individua l’unica alternativa espressiva, in grado di costituirsi come possibile tramite di una manifestazione autentica e vitale, della vitalità e dinamicità del personaggio.

In questa prospettiva, Serafino è personaggio compiuto, figura di teatro e testimone di quei valori primari ed assoluti che possono rigenerarsi nella semplicità di un luogo altro ed essenziale rispetto ai macchinosi espedienti della società.

Questa la sostanza poetica dell’uomo senza maschera che, definitivamente libero dagli artifici storici di una prevista logica della convenienza, si conclude nella totale estraneità di Serafino Gubbio, nella coscienza tragica dell’impossibilità di vivere in una realtà sociale che, sul piano esistenziale, risulta essere interamente distorta e invalidata, dai miti del realismo ottocentesco e del nuovo storicismo.

Sua è la constatazione estrema dell’irreparabile contrasto con la realtà, e solo sua è la disposizione tragica che, rispetto alle scelte parziali, ancora assimilate alla necessità di appartenere in qualche modo alla storia del mondo, gli impedisce di proseguire, come Mattia e Vitangelo, nella ricerca di una dimensione in cui consistere.

Serafino non sente più la necessità di figurarsi nessuna forma, e, senza “né mondo, né tempo, né nulla… fuori di tutto, assente da se stesso”, ormai inabile ad esprimersi, aderisce al silenzio immutabile della sua “macchinetta”, per fissare impassibile, sulla pellicola cinematografica, l’insolvibilità ad essere e la pena del vivere.

Serafino è cosciente che non è possibile stabilire una misura lineare e positiva, una regola intelligibile per trovare un senso alla realtà e, ripercorrendo le tappe conoscitive dell’uomo, mostra l’agghiacciante e terribile verità dell’inconsistenza, la devastante e inconsolabile solitudine dell’uomo