PRENDI UNA CONCHIGLIA dalla raccolta “A Sylvia Plath”

Dove sei adesso? Dimmi!

Su quale scoglio

i tuoi verdi occhi

stanno specchiando

la luce della tua anima?

 

Ti immagino felice

sulla fresca riva

ad aspettare la Luna

e le azzurre stelle

tue magnifiche sorelle.

 

 Sarai una sirena

nella tua fiorente isola,

persa nel silenzio

delle bianche spume

che emergendo ti parlano…

 

Prendi una conchiglia

e ascolta il Vuoto…

Ascolta i sussurri,

così mescolati e confusi

dalle brezze che sorridono.

 

E quando dei mormorii

distinguerai due parole,

il vento avrà già fugato

ogni sinistro dire

che l’invidia va seminando…

 

11.07.2014 Ciro Sorrentino



E RINASCO SULLE TUE LABBRA dalla raccolta “A Sylvia Plath”

 Sei la rosa senza tempo,

 la fresca primavera

 che nutre gli avvizziti semi.

 

 La tua brillante essenza

 sprofonda l’inverno

 nell’oasi delle piccole foglie.

 

 Nella tua pioggia di petali

 la vita riposta e spenta

 scorre come linfa dell’anima.

 

 E rinasco nel tuo sguardo

 che apostrofa e dice

 l’aprile inciso nel tuo cuore.

 

 In te arde la mia pena

 e si popola di fiori

 il giardino del vano girare.

 

 Tu accendi l’informe vita

 e alla mia mente doni

 libera e feconda saggezza.

 

 E rinasco sulle tue labbra

 che nozze di accordi

 suonano nel siglare il tempo.

 

 10.07.2014 Ciro Sorrentino



Aspetta amore … aspetta.

Aspetta amore … aspetta.

Ho ucciso quel che resta
della mia vita,
riverso nel lento oblio
piango l’ineluttabile addio
del tuo amore.

Lampi lontani e brividi,
i primi scrosci,
l’acqua irrompe
e percuote e rattrista,
testimone indifferente
di uno stringato addio.

L’anima fugge scontrosa
non vuol carezze solo silenzi,
ma non si può
il frastuono non è silente,
lacrime e pioggia null’altro
in questo grigio giorno
di fine estate.

Le tue carezze ora son lontane
e le tue mani ferme e gelide,
son come quelle di una Dea marmorea,
l’erba del prato
percossa dal calar della pioggia
è lenta ad arcuarsi.

No, le mie lacrime no
loro son superbe,
han flesso con forza,
e senza alcun compatimento,
l’ultimo brandello
della mia perduta dignità.

Non andar via
aspetta…
va bene e sia,
addio amore mio.



Insurrezioni

È da molto che spendo
i miei giorni tra ragne di buio
in fuga dal mio rinchiuso
come una volta, domani,
seguirò una rotta solare,
occhi schivi di donna
estranei mi fisseranno
trapassandomi il cuore.
Ossigenato dai giardini
dei cortili circostanti
invasivo mi giungerà l’olezzo
che si diffonde dai fioriti
tralci protesi oltre
le infocate ringhiere.
Su seccata redola
l’orma dei miei passi
dirà che di lì muto
un uomo randagio è passato
avvisterò qualche famelico
passero che al dispiegarsi
della mia ombra silente
prudente spiccherà in volo.
Grigioverde muraiola
immota in oziosa postazione
defilarsi vedrò poi spaventata
per il brullo muro crepato
alla ricerca di un latibolo
fidato che tutta l’accolga
riparandola dal rischio
di un accadimento temuto.
Domani, occhiate furtive
lancerò a cartelloni ingialliti
delle ultime elezioni comunali
sedotto dal fragrante richiamo
di una tazza di caffè spumoso
stanco mi fermerò in un bar
a contare i gelati che si sciolgono
tra le mani accaldate di bambini
avvampati accorsi in frotte
dal popoloso rione vicino.
Domani sarà un trasgredire!
L’innesco di un moto riottoso
avvierà una rivolta covata,
capovolgerò le mie malinconie
ad un’insurrezione aderirà
questo cuore orfano di sole
e di oscurità prigioniero.
In un mondo di piccole cose
travolto da un’ondata di vita
altro per un giorno sarò
meravigliando me stesso!



Lettera a mia madre nell’aldilà

L’ora che a te mi congiungerà
lo sento si fa’ più vicina madre
l’attesa della buona ventura
speranzosa si erge tra il consumarsi
di atri sostanziosi contorni di vuoto.
Da quando, tu muta e io in lacrime,
ci separammo quante cose sono accadute:
molte non le avresti approvate
se fossi stata ancora qui
e ti stupiresti sapendo che fatti impensabili
a mitraglia pur mi hanno colpito
e -impossibile!- certo mi diresti che sia.
E’ da tanto sai che non so più
dove mettere i piedi per restare
in equilibrio con la mente
e non strisciare tra confusioni
di vita e di morte o se andare
a destra o a sinistra
ai mille bivi che incontro vivendo.
Mi grava la memoria il passato
vedo i dettagli del mio fluttuare
vacillo, cerco appoggi, scivolo
fin nel fondo, atterrisco smarrito;
alla ragione e al cuore cerco aiuto
mentre il sangue impugna e abnega
l’abitudine di scorrere tra le vene;
non sto più attento alla salute
non curo acciacchi, mi rassegno
rimedi a morbi fisici e morali trascuro.
Senza rifluire di volontà persa è ogni guida,
né prudente né coraggioso non so dove andare
disfatto più non mi allungo e mi contraggo
se da una fessura giungono raggi di domani.
Vorrei essere cieco e non vedere
non fare testimonianza del vuoto
che mi beffeggia e mi insulta
non scambiare fandonie con altri vivi
cercare e inseguire fughe d’infimo grado
o trovare le mani piene di niente
se tento di afferrare ancora frutti
da questi giorni che si intestardiscono
a tenermi secco in vita;
sempre ancor più disubbidisco
agli imperativi di desiderio e di possesso
di bene e di sostanze apparenti.
Madre, non litania è la mia
per questo malessere che non si appiana
ma elegia di stanchezze, stillicidio di astenia,
disegno di aspirazione incalzante di pace,
di quella pace diffusa che regna
oltre i fracassi e le idiozie del mondo
di quella pace che tu anima semplice
nel silenzio dell’aldilà da tempo hai trovato.
Ho percorso rive rigogliose
mi sono immerso nell’acqua
poi nella palude tra sabbie mobili
ho sentito il gorgo funereo di ogni senso
di stare in vita dopo i suoi inganni
or attendo una tua mano soccorritrice
che fuori mi tragga e mi salvi.
Dove sei tu trovami uno spazio
si riannodi un filo da tanto spezzato
senza peso nelle acque del tuo ventre
ritorni per non lasciarle mai più.



La ricerca del Verbo in “IL BIANCO VOLTO DI DIO” dalla raccolta “A Sylvia Plath” di Ciro Sorrentino

“IL BIANCO VOLTO DI DIO” dalla raccolta “A Sylvia Plath” di Ciro Sorrentino

 

Nel tuo nulla astrale

sei fiato sullo specchio,

l’occhio vigile che fissa

il lenzuolo sul rigido corpo.

 

Come oasi nel deserto

disseti l’universo

e l’ambiguo mondo

nutri della tua scienza.

 

Va la tua musica

per la folla sorda e cieca

che non sa parlare

che alla gioconda Luna.

 

Sei indecifrabile fonte

la trasparente oscurità

che di amnio sangue

impreziosisce gli orizzonti.

 

Dell’immensa Stasi

mostri le velate distanze

che con la tua linfa

ingemmano l’albero sacro.

 

Possano le tue stille

di rossa rugiada

svelare della nera vastità

il bianco volto di Dio.

 

06.07.2014 Ciro Sorrentino

 

Per la nostra analisi partiamo dal titolo, “IL BIANCO VOLTO DI DIO”, che isola ed identifica, nella purezza del colore bianco, lo splendore, e, sul piano ascetico, simboleggia il paradiso e l’eternità.

 

È evidente l’intenzione di Sorrentino di rappresentare un oltre salvifico, freddo e silenzioso, immacolato, estraneo,  misterioso.

 

In questa dimensione sconosciuta, in tale imperscrutabile altrove è giunta la sua eroina/donna/poeta, Sylvia Plath, e a lei si rivolge, per cantarne l’immensità che l’ha liberata dalle umane fattezze, lasciandole finalmente la possibilità di poter essere libera di scrutare un mondo spento alla vita, quella vera che lei adesso sente respirando negli sconfinati giardini dell’infinito.

 

E basta guardarsi allo specchio, toccarlo per sentire il “respiro” di Sylvia, per comprendere la sua verità che è la verità della vita, e di tutti coloro che cercano di aderire ad una qualche fede, ad un briciolo di sanità che liberi dal dubbio e dall’afa sferzante di una realtà parcellizzata e dubbia.

 

A Sylvia Plath , la donna che ha avuto il coraggio di compiere il grande salto, e che ha scardinato la porta della bieca ignoranza, Sorrentino volge il suo cammino di ricerca, e segue le orme, gli indizi, le tracce da lei lasciate per sentire e percepire un sapere a tutti sconosciuto.

 

Ecco che il poeta cerca quel rifugio di sapienza che Sylvia Plath gli ha rimasto in eredità, e non per ripetere le sue scelte: Sylvia Plath è testimone di una verità e per aderire ad essa non c’è alcun bisogno di annientarsi: potremmo dire che per lei il passo è stato ineludibile, qualcuno doveva compierlo per rompere le catene dell’oscurità e guardare sotto le nere lastre cosa fosse celato.

 

E Sorrentino raccoglie gli echi della voce di Sylvia, li fa rivivere nella sua voce, nell’armonia di intenti proprio come la poetessa statunitense avrebbe voluto, lei che incompresa scriveva cercando la perfezione della parola per farsi capire e rendere pubblica una verità perduta nel deserto d’amore e conoscenza.

 

Ancora una poesia, dunque, nella quale l’identificazione Sorrentino/Plath è dichiarata e totale, versi che si rivolgono a tutti coloro che stoltamente vanno in giro per il mondo senza sapere né chiedersi perché, una folla apatica che si annulla nelle vane chimere.

 

Le tre strofe finali sono un inno alla natura di Sylvia, la descrizione della sua deità: è Sylvia una sorgente di conoscenza, la primigenia e misteriosa fonte da cui discende linfa d’amore e conoscenza.

 

Ne deriva che Sylvia ha scritto con le stille del suo sangue sacrificale una verità indiscutibile, ha mostrato che bisogna vivere in modo da poter vedere al di là delle apparenze e delle formalità per cogliere i frutti di quell’ “albero sacro” che annullano i veli dell’oscurità e guidano a Dio.

 

08.07.2014 Dipartimento di Lettere e Filosofia, prof. ATTILIO BELTRAMI