La grande bugia.
La grande bugia.
Sono fragile io ed il mio “io “
i vaghi fruscii e il muovere delle ombre
nella mia anima
son come piccole eternità
vissute fra cielo e terra nel limbo
dell’attesa di un vano giungere
di nuove percezioni,
e vivo nell’attesa del giorno
della grande risurrezione.
Bevvi latte materno nella mia prima
infanzia e il mio dormire
con le braccia alzate
rendeva dolce la mia fragilità
e la mia mamma forse sorrideva,
forse no, ma Dio mio che incertezza il dopo,
forse la perversa trappola del non giungere,
sempre e poi sempre e sempre ancora
esitazioni e ancora attese.
Ora vorrei ma non posso,
bere calici di latte,
posso solo liquido rosso
brioso e accomodante
e abbassare finalmente quelle braccia
rimaste sempre in alto, non per
accompagnare il quieto riposo,
ma come la resa innanzi a strani eventi
come la consapevolezza della bugia
della frivola felicità, eppur ci credo
e sbaraglio neri presagi, scrivo e scrivo ancora
penso e ancora penso a quanto sia grande
l’inesorabile inganno della vita .
La circolarità del tempo in “DI FRENETICO DELIRIO MORTI” di Ciro Sorrentino
DI FRENETICO DELIRIO MORTI
Sarà incredibile ritrovarsi
nel silenzio del buio,
rivedere tutta la vita
che scivola via
dalla storia degli uomini…
Sorrideranno i nostri occhi,
le mie e le tue mani
si fonderanno nell’arco
che infiniti universi
scaglierà in roteante fuoco.
Guarda! Ci priverà il tempo
dei nostri corpi,
con il suo artiglio
prepotente e curioso,
cercherà le nostre anime.
Invano irromperà
la curiosità dei malvagi,
furenti gli spergiuri
ci chiameranno folli
di frenetico delirio morti.
Tu, anima mia, guarda ora!
Noi saremo altrove,
saremo il cuore di luce
di una stella dorata,
che illuminerà nuovi cieli.
03.04.2013 Ciro Sorrentino
Ancora una poesia “circolare”, versi che possono essere “capovolti” e “rigirati” e che, comunque vengano letti, portano alla stessa conclusione, a “focalizzare” l’attenzione sullo “snodo” centrale, sull’intenzione velata di rappresentare e dire il dolore, “viatico” di saggezza e lungimiranza.
Sorrentino volutamente ha segnato una svolta stilistica del suo poetare, quello che per lui conta è centrare un motivo e “percorrerlo” fino a farlo “esplodere”, per catturarne ogni pur minimo risvolto.
Dunque, partendo dai versi centrali, potremmo dire che il poeta indica il “tempo” come l’artefice e l’artifizio “cosmogonico” per fissare la partenza e l’arrivo della vita degli uomini: al centro dell’attenzione è la crudele ferocia di un “meccanismo” assurdo, “surreale”, “misterioso” che irride la vita – è un tempo che dona e toglie la vita, un tempo/morte che attende nell’oscurità per prendere ciò che prima ha donato.
Questo “tempo” nell’atto di creazione/dissoluzione delle umane forme, assume caratteristiche particolari, evidenti nell’ “artiglio” che dei suoi figli cerca l’anima.
Certo “figli”, non vittime, sarebbe più semplice dire che questo tempo assume i tratti bestiali di una creatura soprannaturale che imperversa sul creato e sulle fragili creature che lo popolano.
Sorrentino questo lo sa, è consapevole del fatto che questo tempo persegue il suo scopo, “la circolarità”, l’eterno che rappresenta, il tempo insegue se stesso e nella morte/rinascita garantisce a se stesso l’eternità.
Piuttosto l’accentuazione negativa cercata e mascherata da Sorrentino è nei versi successivi che apparentemente sembrano declamatori e pessimistici nei confronti del tempo dell’universo.
Di fatto, è proprio l’opposto quello che intende il poeta, il tempo segue il suo corso naturale, la sua apparente legge dell’annullamento della vita.
Ma è il tempo umano ad essere giudicato e misurato nella cattiveria e nella maldicenza di quanti osservano, non tanto per “partecipare” e “comprendere” il dolore e le pene, ma per pura “curiosità”.
Un tempo umano che nella storia degli uomini diventa una macchina “fagocitante” che sperpera e infanga la memoria e il ricordo di chi, come Sylvia Plath e lo stesso Ciro Sorrentino, perseguono il fine della scienza del mondo, la conoscenza del grande mistero.
Mistero che poi, a ben considerare, per loro due non lo è affatto, dato che nelle loro “preveggenze” e “percezioni”, si sono ritrovati nell’unico luogo per loro possibile, nell’universo eterno e smisurato delle emozioni che si evolvono senza fine, in roteanti fiamme di luce e buio, di “morte/vita” e di “vita/morte”.
Ci si potrebbe chiedere quale è il senso di tutto questo, ma è evidente che la sola risposta possibile è che il tempo, almeno per come lo intendiamo noi, non esiste o che gli abbiamo assegnato noi una misura, un campione numerico sul quale e per il quale compiere le nostre azioni.
Su questo “non/tempo” sono stati gli uomini a costruire le cattedrali dei loro orologi, la precisione e puntualità dei giorni e delle notti: uomini, bugiardi ingannatori, illusi e illusionisti che sacrificano sull’altare della sofferenza la verità dei saggi, i proclami di chi ha colto e raccontato il vero, provando a svegliare il pensiero nelle menti addormentate e svilite di altre povere vittime della menzogna.
Ma per Sorrentino non ha nessun valore il giudizio dell’umanità, o presunta tale, e subito prosegue invitando Sylvia a guardare lo spazio ignoto e magico, soprannaturale ed alieno nel quale si ritrovano e per il quale sentono amore, lo spazio di un Eden che apre la porta ad altri paradisi, universi giovani da popolare e percorrere nel nome di una verità d’amore da diffondere e magnificare.
Ma si rifletta bene, perché la parola amore è da intendersi come donazione e comunione, sommo bene, passione infinita e cristallina, impalpabile ed eterna: questo amore sconosciuto assume allora i tratti dell’armonia e della perfezione, dell’equilibrio tra tutte le molteplici e smisurate forze che assecondano e governano gli universi paralleli, che incontrandosi sono l’uno fuoco dell’altro.
In altri universi Sorrentino si stringe a Sylvia, con lei vuole estraniarsi, vuole percorrere l’ignoto, immergersi nelle acque di altri abissi, ritrovarsi tra altre correnti, nuove e perciò stesso magnifiche, figlie di quella perfezione di cui sopra si è già detto.
La perfezione: un mistero che Sylvia Plath già aveva inseguito e che Ciro Sorrentino insegue, ma senza dolersene, anzi sembra quasi che il poeta celebri e descriva Sylvia, la “donna/eroina” che prima di lui ha significato la sua stessa intenzione di ricercare e demistificare ogni postulato e ogni assioma che escludeva la volontà dell’uomo di sentirsi parte attiva e sostanziale della vita a lui concessa di percorrere e consumare.
Allora sarà bello rivedere la vita libera, fuori ed oltre gli schemi e le forme umane, assaporarne il gusto in altre “placente”, nascere e morire in tempi e spazi diversi, e comunque dove essersi resi testimoni di verità.
Da quelle altezze, da vette di altri mondi, i due cantori potranno fondersi in un’unica voce e sorridere delle sciocchezze di tutti gli esseri che incontreranno, giganti o nani che siano, belli o mostruosi non importa, per loro sarà importante raccontarsi perché nel loro racconto assolveranno il loro compito quasi “messianico”, spargere semi di verità, lasciare indizi del loro passaggio in ogni più oscuro recesso degli universi, affinché ovunque si persegua la via della sublime poesia, il mezzo permeato di emozione e amore , l’unico capace di veicolare messaggi di amore e conoscenza.
12.04.2013 Cinzia de Rosis
Addio, terra mia
Addio, terra mia
Silente terra senza tempo
con le tue festose filastrocche
ed ebbra di semplici parvenze,
cavalca il nero destriero
della solitudine,
e scorda del
pur giusto abbandono
dei tuoi giovani figli,
che dolenti si affliggono
di dover vagare,
da borghi a città cupi
dove anche il ciuffo d’erba
germoglia già giallo
sulle enormi case
di freddo cemento.
Un grande mare
di esseri umani
che annaspano
nel delirante naufragio
della loro solitudine,
come fossero costipati
nella grande stiva
di una nave inabissata
nel mare delle
speranze svanite.
Addio terra mia.
Giovinezza
Giovinezza
Come ebbi sentore
che tal sorseggio di
felice gioventù volgea
al termine,
chiusi gli occhi
e opposi ostinata
resistenza
al malcelato dolore
che l’ingrato fato
delineò per noi,
nella triste
usura del tempo.
Brillò derisorio
il volto dalla
beffarda donna
dalle lunghe trecce
che ella annodava
e disfaceva
da un’eterna vita,
quasi a rendersi bella
innanzi ad
un nero specchio.
Ma ella non era
che uno spettro
veloce e impassibile,
ed io non fui
che sfiorato
da una instabile
e fugace cometa
chiamata giovinezza.