Una vita stramba

 

Una vita stramba

 

 Io vorrei scrivere basta

con il corvino tono sui muri

rozzi e scorticati,

ma come fare

se di pensieri e

rincrescimenti poi vivrei.

 

A che serve affastellare

i quieti desideri

e poi vociare aiuto aiuto,

il vento non spiffera,

chi udrà i miei

rammarichi e dolenze.

 

Che spasmo

l’addio alla vita,

non è gravoso,

solo un po’spiacevole,

ceste e ceste di rimpianti,

che forza, che osare,

ma son come burro

sotto una calda lama,

e tanta subdola rabbia.

 

Pian piano son giunto

alla fine della  folle primavera,

le sue  fioriture munifiche,

i fiori di vetro,

uccelli finti e statici,

piante sempre verdi

 e  foglie blu,

e tanti tanti sentori.

 

Bello l’arrivo del  triste

e caldo inverno,

neve rossa

bufere di sospiri.

e nubi gialle,

che strano la mia vita

sembra ricca di fantasia

ed è fatua vuota e stramba.

 



Che folli pensieri confusi.

 

Che folli pensieri confusi.

 

Con deferenza ascolto

l’arguto presagio

di un addio ma addio non è,

son fuori

dal percorso di una

qualsiasi vita e sfoglio,

sfoglio grovigli di libri,

leggo pergamene avvolte,

e poeti tristi e felici, ma poeti.

 

Dio mio quanto dolore,

guardo nello specchio,

che folle idea son ignoto

a me stesso e non guardo,

 mai più volli

e mai potrei più amarmi.

 

Quante lacrime indurite

son ferme sulle mie guancie,

hanno lacerato anima e corpo,

e più nulla,

a che serve esserci se ormai

non son che avvolgente foschia.

 

Come potrò

 dipanare l’enigma

ancestrale della morte,

che sempre vince sulla vita,

ebbene mie ignobili virtù

siate coraggiose e mostratevi,

che io abbia rispetto,

ma solo rispetto,

come ad una serpe

che punge la propria madre.

 

Bui e ombre

e ancora incubi,

rumori e sibili fragili

in una mente

sballottata e oppressa,

fuggite silenzi ed ombre

che io abbia ad ascoltare

palpiti e tremori,

ormai son solo,

l’addio è allettante

invoglia e perseguita,

lenisce e alletta.

 

 



Vivere per vivere in “VA E VIENE IL TUO ASTRO” di Ciro Sorrentino

VA E VIENE IL TUO ASTRO

 

Hai chinato il capo

aspettando muta

che l’azzurra scia

fermasse il tuo respiro.

 

Con il tuo verdetto

hai svincolato

l’increspata vita

dalle frenetiche acque.

 

Sei rinata – anima –

sciolta dalle ombre

che accerchiano

sul viale degli spettri.

 

Va e viene il tuo astro

in questa cupola

persa al tramonto

del mondo elettrizzato.

 

Penso a te che

hai chinato il capo

risollevandoti

da questa vagante terra.

 

27.03.2013 Ciro Sorrentino

 

Va e viene il tuo astro“, un titolo che contiene in sé la poetica di Sorrentino, quell’amara coscienza che lo rende partecipe di una dimensione cosmica che lo estranea, non solo alla terra e al mondo, ma all’universo stesso.

 

Il poeta ricorda Sylvia Plath, e vede la donna nel suo perpetuo passo, nel suo riapparire di “cometa” che si sfalda e rinasce dalle sue polveri come l’ “araba fenice“.

 

E di fronte a tale “imperscrutabile immensità” lui ricorda e vede Sylvia, ne rappresenta l’istante del trapasso e della liberazione, l’attimo in cui sceglie di liberarsi dal peso di una natura limitata (l’umano corpo), che non riesce a contenere il suo essere.

 

Una “natura” che è ancora più colpevole perché le fornisce il mezzo (il gas), per porre la parola fine nella forma e per la forma che si ritrova a sopportare.

 

Sembra quasi di provare l’insoddisfazione, il senso di amarezza e l’angoscia dell’ “insolvenza” che percorrono il corpo di una “mente superiore” che vuole espandersi senza fine.

 

Sylvia Plath è ricordata nel gesto estremo, ripresa nel suo silenzio, immortalata nell’atto che le sottrae l’ossigeno necessario alla “non – vita“.

 

Simbolica l’immagine che la ritrae come giudice che emana il “verdetto“, il “proclama“, la “sentenza” che decreta la sua “purezza“, l’ “innocenza“, un’infanzia felice che dalla storia è stata “tradita“, “sconvolta“, “annegata” nelle “…frenetiche acque”: il convulso sovrapporsi di un’ondata impossibile di eventi e circostanze inspiegabili.

 

Sylvia Plath si sottrae all’insolvenza ad essere, vuole determinarsi, individuarsi nella vastità che non fornisce risposte, nell’infinità che agghiaccia e atterra, nel suo “antro nero di forze centripete“, che “spingono“, “urtano“, “travolgono” senza un ragionevole “perché“.

 

Eppure, dal “transitorio dissolversi“, dal momentaneo sospendersi, dallo spegnersi come fuoco di questo universo, germoglia un fiore nuovo, le ceneri di Sylvia Plath sono nutrimento di nuova linfa, generano una terra vergine, uno spazio “dionisiaco” nel quale e dal quale la sua anima “risorge” libera, libera “…dalle ombre che accerchiano sul viale degli spettri”.

 

Quest’anima, l’anima di Sylvia Plath (e di riflesso l’anima di Sorrentino) risorge e sembra sorridere di ogni parvenza: lei che ha compiuto il “salto” e tutto conosce “saluta” i fantasmi della mente, “esorcizza” la sua precedente vita, “razionalizza”, nella prospettiva dell’ “ignoto mistero“, ogni memoria.

 

E per rendersi testimone, per svegliare le “coscienze dormienti” dalle zone recondite e sperdute degli “universi” risorge recando la sua luce, anzi la “luce” che in lei, di lei e per lei si è accesa.

 

Probabilmente Sorrentino vuole veicolare proprio questo messaggio: Sylvia Plath, prima della sua separazione dal mondo, ha lasciato “indizi” perché qualcuno li raccogliesse, per “pubblicizzarne” la verità: Sorrentino “presagisce” questo intento e se ne fa portavoce.

 

È come se il poeta abbia raccolto un’ “eredità” e stia divulgando al mondo le “chiavi di lettura” di questa poetessa che ha colto il senso dell’esistere, il “vano ravvolgersi delle trame degli uomini“, la stoltezza di tutti quelli che si arroccano in una “…cupola persa al tramonto del mondo elettrizzato”.

 

Sylvia Plath ritorna, la sua anima risorge, il suo spirito si è riacceso in un “nuovo astro“, e ancora “parla“, “discute“, “chiede“, “vuole” una spiegazione “plausibile“, “logica“, “esaustiva“.

 

Sorrentino sembra voler dire che Sylvia Plath, nel suo testamento poetico, ha lasciato “tracce” e “indizi” da seguire per intraprendere un viaggio di conoscenza senza fine: dunque, per Sorrentino “questa donna/eroina” ha “oltrepassato ogni dimensione“, ne ha visto la sostanza segreta e imprendibile, e nella comprensione impossibile fa ritorno per “invitare” gli esseri umani, “a vivere” questa vita “senza compiere quello che è stato il suo gesto estremo“.

 

Vivere…, “vivere per vivere” e non chiedersi il perché, vivere “sentendo la vita“, “assaporarne” gioie e dolori, nella volontà di “determinarsi” e “liberarsi” dalle fittizie congetture.

 

La rinascita di Sylvia Plath è simbolo di un infinito ed eterno ricrearsi, “un salto nel vuoto che non ingoia“, un vuoto che “respinge” e “rilancia” all’ “esterno” l’anima.

 

Sorrentino giunge ad esplicitare la sua “filosofia”: nella sua meditazione, “vita e non – vita“, “realtà e non – realtà“, sono due facce di una stessa verità, di un “nero dormiente” che generò la sua stessa luce.

 

Per i riferimenti filosofici di Sorrentino, rimando al mio articolo “Il nero allo specchio” (20/02/2014 dipartimento di lettere e filosofia, prof. Attilio Beltrami) dedicato alla poesia “Nell’armonia di luci e suoni” (16.02.2014 Ciro Sorrentino). Ne riporto alcuni stralci per maggiore chiarezza:

 

“…all’inizio del tutto Sorrentino individua nell’assenza una realtà dormiente, un nulla fagocitante che si espande a dismisura in ogni direzione, per un tempo indeterminato, astratto, inintelligibile.

 

…probabilmente la sostanza del vuoto girare, l’entità tempo è lo stesso Dio che rimane atterrito dalla mancanza di un riscontro, sembra quasi che aspiri a guardarsi in uno specchio per riconoscersi, liberarsi del nero che è.

 

il buio-silenzio/vuoto esplode, cioè si sveglia e prende contatto con il sé che dorme: in effetti, il tutto/nulla padrone di se stesso si identifica con il tempo.

 

…l’assenza, ciò che oggi viene studiato come antimateria, “ciò che non è, eppure è“, contiene in sé i presupposti del divenire.

 

Il vuoto/buio-silenzio/tempo o semplicemente quello che Sorrentino identifica con il nero/Dio nasce dal di dentro, dunque, da un’implosione, da un’innata forza centripeta che lo schianta e lo feconda generandolo ed emancipandolo al pensiero e all’esercizio razionale.

 

…Dio si autogenera nella visione di Sorrentino, e accorgendosi della smisurato spazio che esso stesso costituisce, nell’eterno espandersi, prova una sensazione di tremenda solitudine, scopre di essere solo nel suo vertiginoso nulla.

 

Dio prende coscienza di essere una statua, intarsiata di nere luci, e impressionato dalle percezioni di possibilità altre si sveste dei neri pensieri o dell’assenza di una logica e si riflette, proiettandosi come divino soffio, quasi come una immane forza centrifuga.

 

…e creò gli universi paralleli, colmi di stelle e pianeti, popolando questa terra di esseri che altro non sono che proiezioni di se stesso“.

 

03/04/2014 dipartimento di lettere e filosofia, prof. Attilio Beltrami 



Il fuoco

 

Il fuoco

 

Va via notte folle

che non abbia a pentirmi

di aver vissuto i tuoi

deliri appassionati

e amor d’amore.

 

Via scappa e non voltarti

che non si vive

di solo niente,

ma di tanto e molto,

e fuggi, fuggi via

che non abbia a pensare

che il gelido abbraccio

di un amor trovato e perso

sia in quel cumulo di

frammenti di stelle.

 

E il vento soffia,

 spinge e allontana

e irretisce,

ma son veloce e fuggo anch’io,

ombre e spiriti svolazzano

ma che tristezza,

fiori macilenti e mantelli neri

dissipano luce e olezzo,

tacciono e adirano

quel che volli ed ebbi.

 

Che sogno strano,

ma mai fui cosi lusingato

di aver fuorviato ciò che volle

l’ingannevole sirena

con la sua lusinghiera avvenenza.

 

Il fuoco attizzato ora è incendio

e che potrei dir ora,

brucio e ardo ma son felice

poiché l’ingannevole donna

con la coda di pesce nulla può

col suo canto idilliaco,

fuggo col corpo ma

resto, col cuore e l’ anima.

 



Gli acquitrini dell’insolvenza in “VA E VIENE IL TUO ASTRO” di Ciro Sorrentino

VA E VIENE IL TUO ASTRO

 

Hai chinato il capo

aspettando muta

che l’azzurra scia

fermasse il tuo respiro.

 

Con il tuo verdetto

hai svincolato

l’increspata vita

dalle frenetiche acque.

 

Sei rinata – anima –

sciolta dalle ombre

che accerchiano

sul viale degli spettri.

 

Va e viene il tuo astro

in questa cupola

persa al tramonto

del mondo elettrizzato.

 

Penso a te che

hai chinato il capo

risollevandoti

da questa vagante terra.

 

27.03.2013 Ciro Sorrentino

 

Prima ancora di esprimere un giudizio sul messaggio psicologico e metafisico che attraversa questa lirica, si osservi come la struttura sia stata resa volutamente simmetrica, e che, capovolgendo le strofe al centro rimane sempre la stessa, come se fosse il cuore su cui Sorrentino intende far convergere le sue meditazioni.

 

VA E VIENE IL TUO ASTRO

 

Penso a te che

hai chinato il capo

risollevandoti

da questa vagante terra.

 

Va e viene il tuo astro

in questa cupola

persa al tramonto

del mondo elettrizzato.

 

Sei rinata – anima –

sciolta dalle ombre

che accerchiano

sul viale degli spettri.

 

Con il tuo verdetto

hai svincolato

l’increspata vita

dalle frenetiche acque.

 

Hai chinato il capo

aspettando muta

che l’azzurra scia

fermasse il tuo respiro.

 

27.03.2013 Ciro Sorrentino

 

Dunque, la ferma intenzione è quella di dichiarare, da subito, che Sylvia Plath è un’anima, viva e fulgida, un’entità che si è svincolata dal corpo e dalle fattezze di questa dimensione conosciuta, da questo luogo dove tutto sembra convergere in una visione fatta di categorie ordinate dalle leggi della fisica, dalle categorie dello spazio e del tempo.

 

Ma se proviamo a scollegarci da queste leggi preordinate e dettate dalla logica umana, che tutto vuole spiegarsi, ci ritroviamo, questo secondo l’intendimento di Sorrentino, a contatto con una dimensione deformabile e deformata, per i nostri sensi, una dimensione che non riusciamo a percepire e sentire come nostra, che ci terrorizza al punto che la nostra mente, la nega e non trova la porta per accedervi.

 

Quando Sorrentino dice “…sciolta dalle ombre…” intende che la mente o l’anima, e, comunque la coscienza, si è guardata e si è riconosciuta, e ha scelto di alleggerirsi di ogni fittizia e illusoria forma umana che avvilisce e atterrisce “…accerchiano sul viale degli spettri…”.

 

Si faccia attenzione alla parola “spettri”, non sono fantasmi sono piuttosto anime che sorridono, attendono e accolgono Sylvia Plath e tutti quelli, come Sorrentino, che riescono a vederle e a dialogare con loro.

 

Il “…viale degli spettri…” è la via della salvezza e della verità, il luogo impercettibile, e a tanti sconosciuto, dove è approdata Sylvia Plath e con il quale Sorrentino è in sintonia, la “stringa” sulla quale la donna/poeta passeggia e sul quale Sorrentino sembra rincorrerla per abbracciarla e ritrovarsi.

 

L’identificazione di Sorrentino nell’anima e con l’anima di Sylvia Plath a questo punto è dichiarata, il poeta raggiunge la luce della donna/poeta e rinasce con lei e per lei.

 

Ma tornando alla lettura di questa poesia “capovolta”, osserviamo come i versi iniziali della prima e dell’ultima strofa restino sempre fermi, come a significare che c’è una circolarità, un nascere e rinascere, un ciclo perpetuo che si rinnova.

 

Il poeta rivede Sylvia, la sua anima, che si estranea alla piccolezza di questo errante pianeta, minuscolo e insignificante corpo (si faccia attenzione  alla parola corpo che, richiama l’idea del corpo umano, ma che assume un valore universale in riferimento al cosmo), sperduta e sola in un angolo marginale di uno dei tanti universi di cui non conosciamo nessuna mappa.

 

Eppure, in questa assenza di punti di riferimento l’assolutezza dell’anima è l’unico punto fermo e riconoscibile che si accende e si spegne nella notte dei cieli, e nel nostro cielo che sovrasta le stupide costruzioni di un’insignificante cattedrale dello scibile edificata dagli uomini per sentirsi come protetti e al sicuro.

 

Ma da cosa vorrebbe proteggersi questa umanità, non si accorge che ha perso la bellezza di un tramonto, l’attimo in cui sulla linea d’orizzonte la luce e il giorno si sposano creando e generando una terza porta, il punto dell’inimmaginabile, del non possibile e che, invece, è possibile?

 

Il mondo convulso, “elettrizzato”, preso da vuote simbologie non riesce a penetrare l’infinito, non può cogliere la vastità dell’assoluto che si svuota e si riempie continuamente, in un perpetuo moto oscillante.

 

Di tutto questo, di questa sconosciuta vastità Sylvia Plath diventa simbolo, la donna che si è distaccata dalle forme conosciute per poter indagare ed essere fuori ed oltre i limiti di una vita avvolta e stretta dalle forme dell’inconsapevolezza una vita che non sa di vita e che scorre per scorrere sulle lancette di un grande orologio pietrificato.

 

Una vita che annega negli acquitrini dell’insolvenza, che è coperta da coltri di dense e fitte foschie che accorciano la vista, negando la percezione del vero o di quell’altrove sempre decantato da Sorrentino, ancor prima del suo incontro con la grande poetessa statunitense: e per aderire a quell’altrove aveva bisogno di una porta che le si schiudesse, ed ha cercato un mezzo possibile, una formula fisica, che nel suo composto di aeriforme e liquida vaporosità le consentisse e, di fatto le ha consentito, il salto nell’indistinto.

 

30/03/2014 Letterature Comparate, prof. Cinzia de Rosis



Cenci e lustrini

 

Cenci e lustrini

 

Dir or ora che nulla potetti è ignobile verità,

ma che suggestione il dover ammettere

che ebbi timore di rifar percorsi silenti e bui,

corrucciato e senza inganni vissi tempo

e fioriture sempre uguali,

fra cenci e lustrini,

strappai destino e presente

e non vissi che del quando.