Auguri

Vorrei augurare una Buona Pasqua a tutti gli autori ed ai poeti di questo sito

Lele Feola



SULLE FREDDE LASTRE DELL’ANIMA dalla raccolta “A Sylvia Plath”

Tu, vita, annichilisci

con vani sorrisi,

ebbrezze di Luna

che sempre gelano

pietrificando il sangue.

 

Guardo le tue arcate,

fosche colonne

di lucido marmo

che tutto sovrastano

sprezzanti e impertinenti.

 

Di notte lasci fantasticare

l’animo sfinito,

di giorno stringi

ogni apparizione

negli inquietanti vapori.

 

Il tuo rimbalzo smorza

lanterne e respiri,

recando angoscia

a chi vuole la quiete

e interminabile il silenzio.

 

Con lame assottigliate

colpisci e laceri,

lasciando l’anima

nella scoperta paura

del primo vagito al mondo.

 

I tuoi ambigui cespugli

asfissiano le foglie,

e i sogni lasciati

all’affanno dei rami

ormai isteriliti e stanchi.

 

In te nessuna fecondità

né amore che salvi,

solo fumi nascono

e serpeggiano rapidi

sulle fredde lastre dell’anima.

 

16.04.2014 Ciro Sorrentino



Le parole che non ho pronunciato

Il tuo cuore, donna,

è come il luccichio di uno sprazzo di sole

tra le nuvole cupe di questa terra persa.

Le tue parole, come fulgidi arabeschi

si dipanano sull’anima mia rapita

e come ali mi circondano col calore del tuo ventre.

Se solo le anime degli uomini

sapessero immaginare

la bellezza soave del tuo cuore!

 Vorrei spiegare come è meraviglioso il tuo amore

ma non riesco che a dire di cose futili

insignificanti

che pure bastano a sollevare splendidi arcobaleni

e a far sgorgare lacrime di gioia

dal punto più profondo della memoria

dove son sepolte le parole

che non ho ancora pronunciato.  



La contemplazione del Mistero in “Buffa ombra” di Ciro Sorrentino

Buffa ombra dalla raccolta “a Sylvia Plath”

 

In questa notte di luna

tutto tace – le rose

sono seppellite

dal silenzio di neve.

 

Si smorzano le luci

sulle pareti dell’anima,

assorta e viva

nella quiete morente.

 

Ti sento…

 

Sento il tuo dolore,

la voce del cuore,

l’onda di sangue

che riempie le sfere.

 

Incupiscono le nubi,

la pioggia bagna

le mani e il petto

come veleno che uccide.

 

Ti vedo…

 

Vedo il tuo corpo,

sacrificato cero

che si consuma

sull’altare che chiama.

 

Dono a te il mio sorriso

– stilla d’amore

per le tue labbra,

immobili cigli di statua -.

 

Non ti offro illusioni,

né rose o fiori di piombo,

la tua pura natura

cerca eterna armonia.

 

Ti offro il mio sorriso.

 

Sorridi a me che ti vedo,

anima candida,

sorridimi sempre

nelle sfumature d’ignoto.

 

Sorridimi in silenzio,

delicata farfalla,

sorridi al cuore

di questo misero poeta.

 

08.04.2013 Ciro Sorrentino

 

I primi versi, in accordo con il titolo “buffa ombra“, lasciano intendere subito che il poeta sta osservando non già il cielo, ma la sua ombra che da luce di luna allunga davanti a lui.

 

Nel suo peregrinare, al suo passo lieve e impercettibile si mescolano riflessi “luminosi” di un silenzio sublimato, magico, surreale: sono atmosfere che avvolgono ogni elemento visibile e sonoro, riempiendo il Tutto di una pace senza tempo.

 

Eppure in queste sfumature apparentemente sinuose e lievi, ancora una volta, il poeta maschera un gelo che stravolge e irride, un silenzio che ghiaccia e pietrifica la terra sulla quale cammina: “un silenzio di neve”  ha coperto ormai i fiori vermigli, le “rose” e di esse ha assorbito la vita, interrandole sotto lastre pesanti di ghiaccio.

 

Sorrentino non percepisce più odori e fragranze di vita, i petali sono lontani e perdute gocce di un sorriso spento, di una luce che cade come cadono le lucciole quando giunge la loro ora, l’appuntamento con la nave dell’aldilà.

 

Si osservino i chiaroscuri, creati di proposito, per significare l’amarezza e la pena, il tormento nel non poter intervenire per riaccendere il respiro della vita e la luce, il flusso di sangue che lentamente ed inesorabilmente scivola via dall’anima, mentre è tutta presa nell’estasi, nella contemplazione del Mistero che la estranea dal mondo.

 

L’anima, quell’entità che sembra indecifrabile, per Sorrentino è imperitura ed eterna, prova ne sia che quella “quiete morente” non è la morte ma è il silenzio che ha termine: a morire è l’orrido silenzio, e l’anima sorge e fiorisce da questo mutismo di cosa, dall’atonia dilagante che imperversa e sacrifica la vita.

 

E in tale contesto, in una zona d’universo parallelo, Sorrentino ascolta i soffi di vita di Sylvia Plath, ne coglie le parole d’amore infinito, un amore prezioso e non visibile, l’amore di Dio che in lei si è espanso.

 

Un amore che è insieme gioia e dolore, bianco e nero, pienezza e vuoto, perché solo un tale ossimoro rappresenta il Creato, i due poli estremi che, fondendosi, hanno generato la molteplicità policroma dell’esistente.

 

In questa “percezione” il poeta si ritrova con Sylvia e di lei avverte la purezza e la magnificenza, quel flusso di vita, il vermiglio sangue che percorre in assoluta perfezione gli infiniti spazi di altrettanti infiniti cieli, in una “circolarità”, come Cinzia de Rosis, in altro articolo ha giustamente sostenuto, che è senza fine.

 

Il silenzio, di cui si diceva nella tesi iniziale, è dunque interrotto definitivamente; ora le nuvole picchiettano la terra dove passa il poeta, questa transitorietà terrena, questa ripetitività ciclica percuotono la coscienza, ma, a ben considerare, la svegliano dalle visioni dogmatiche e dalle credenze fideistiche, quest’acqua non è già un “veleno”, è una pioggia che scioglie le morte forme, le incrostazioni, le maschere che oscurano invece la comprensione del tutto.

 

Da questo lavacro Sorrentino vede Sylvia Plath, sembra quasi ripercorrere il momento in cui la donna/eroina si consuma nei sui ultimi istanti di vita, come una candela tremolante che è giunta al termine.

 

Ma si noti come Sorrentino sottolinei la funzione dell’altare che invoca Sylvia, la cerca, cerca colei che aveva compreso e che al tutto e del tutto voleva ritornare ad essere partecipe.

 

A questa donna/poeta/profeta, Sorrentino sorride, invia il suo messaggio, anche lui ha compreso, ha visto sulle sue labbra scorrere parole che magnificano la verità.

 

E quale modo migliore di immortalare la voce di Sylvia se non nella solidità marmorea di una statua, su quegli orli di rosse labbra che, nella loro fissità, decantano e decanteranno sempre il significato profondo e il mistero cosmogonico.

 

 

A Sylvia, Sorrentino non reca illusioni e chimere, non mostra debolezze umane, né quegli artifizi che lei decise di rifuggire: offre una “comprensione”, la stessa che lei cercava.

I fiori sarebbero solo zavorre, altre incrostazioni e fittizi simboli di questo mondo che possono solo lasciare intendere un oltre, ma non mostrarlo.

 

Il fatto è che gli uomini usano i fiori per ben altri scopi, li porgono per sinistri fini ed interessi egoistici che esulano da ciò che essi rappresentano: schizzi di purezza, transitori sprazzi di un sorriso divino.

 

 E questo sorriso, che fu già ed è di Sylvia Plath, Sorrentino lo porta in sé e a lei lo offre, lo porge all’anima candida che gli ha mostrato la via, il suo riflesso d’eterno scorrere.

 

Sylvia Plath è, dunque, specchio della sua anima, del suo morire e rinascere libero.

 

La chiusa ricompone la “circolarità”, ritorna il silenzio, la quiete d’amore, la perfezione sferica nella quale il poeta si era ritrovato e per la quale aveva iniziato questo suo canto di rinascita, il viaggio della conoscenza oltre i confini del mondo.

 

13/04/2014 dipartimento di lettere e filosofia, prof. Attilio Beltrami



Follia

 

Follia

 

Quanto silenzio può esserci

in un concitato racconto d’amore.

 

Il lento e ripetitivo fluire dell’acqua

allevia e rinfranca piante e bestie

e il suo scroscio

rimembra i tristi ricordi,

con vigore pigio i pugni sul cuore

e con il viso rivolto all’insù

scaccio gli ignari abbracci

di un destino lacero e sepolto

dai deflussi di una vita

becera e cupamente incerta.

 

Ho ucciso l’anima,

il cielo è nero,

gli sciacalli attendono ansiosi

indifferenti dei miei

ansimanti respiri,

che dire tu non sei

ed io son solo e in agonia.

 

Gli scalpitanti cavalli bianchi

traghettatori ignari

nel mondo che non c’è,

attendono irrequieti

l’inizio del grande viaggio,

l’ansia annienta la quiete

e irretisce la follia

che disfa e poi fugge

nell’ancor silenzio

di una vita dismessa.

 



Fluido sentore

Fluido sentore

 

Son colui che volle

esser fugace nel soffrire,

ma ciò mi parve tanto

strano, quanto allettante.

 

Alzai gli occhi al cielo

adescato da una empia luce

e da essenze irritanti,

ombre e scie,

allegre e misteriose

carezzavano con mani ruvide

il mio volto assorto ma sereno.

 

Ma dai son divertito e attratto,

da ciò che provai tempo

addietro, di strani e dolci

fluidi dal sapore eccelso,

ma fu solo effluvio.

 

Silenzio, il rancore è sopito,

il mare si appressa,

piano..piano,

con voluttuoso dondolio,

e con sorniona violenza

scava profonde grotte, 

nei duri e pazienti scogli,

ed entra irruento nell’ animo,

e finge incanto,

cela ricordi,

blocca il respiro,

toglie i ricordi

e taccia la vita.

 

Raffaele Feola Balsamo.