Il nulla del nulla


Esprimi ciò che sai,
quieta il tuo cuore,
la morte è un dono di tutti,
non appropriartene,
non farla tua,
ella non pensa, ma sa,
è quando brama prende
quel che aspira e non da conto.

Il nulla del nulla

Che pensier voluttuoso
nel bramar l’amor che volli,
e sommi furono i poeti del bello,
da loro ebbi ad udir
solo parole lascive
e mai mostrate e mai scritte,
solo e solo sprazzi di odor di vita
e quante inutili promesse,
mai volli esser colui che poi divenni,
un nulla in tanta nullità,
ma che far amor mio,
piango piango piango, ma di gioia.

Ma che fu di vero nella mesta vita,
ho chiuso in una bottiglia un odore
un profumo, un sentore, una lacrima,
e la spingo in un piccolo stagno
e cullo il sogno che qualcuno
possa leggerla, dai amore non ricalcarmi,
io fui solo una stella cadente
in un cielo buio e senza luci,
non amare, l’amore spesso
è più empio dell’indifferenza.



Mia Signora.

Mia Signora.

Si Ti vedo mia Signora,
Ti prego conduci
nel terso cielo la mia anima,
e i fiori cosparsi
di odor di bosco
fuggono via sospinti
da un tenue vento,
e ciocche dei miei fini capelli
ne seguono
condiscendi il percorso.

E volli guardar
in quel sorso d’acqua
che lento scivola e sbriciola,
e trascorre nel tenue
percorso da anni addietro
la mia sfuggente gioventù.

E pur vive e fluisce
il lento e monotono
piccolo fiume,
e incute al mio triste cuore
lontani sogni
e antichi entusiasmi,
e impossibili desideri,
scritti su una fragile barchetta di carta
da me eretta con mani di bimbo,
va mia Signora non aspettarmi
porta con Te la mia anima,
io qui son prigioniero e perso
nel mondo che non c’è più.



Il mio malvagio angelo.

Il mio malvagio angelo.

Esaltazione di un antico alterco
fra il nero ed il bianco,
perspicace e prospiciente,
di una primavera sciatta e arida,
giunge trafelato il reprobo
mio angelo custode
ineffabile e trafelato,
infernale e malvagio.

Da qual luogo dunque si dipanò
il mitico filo di Arianna,
io non capisco,
avvolgo e fuggo,
ma mi son perso nell’angolo
buio di un amore vile e audace,
e volteggio e fuggo,
ma resto fiacco
e non resta che attendere,
la follia mi aiuterà
e sarà la fine di un
incubo chiamato dolcezza,
di un angoscia chiamata vita,
e dell’eterna lotta
del bianco e del nero.



La mia discreta pazzia.


Strada malagevole
e colma di limo,
le mie scarpe
talvolta lucide e cromate
di un colore che dà sul rosso,
ora son nere e grigie
come il mio cielo azzurro
che azzurro non è più,
ma dai che farfugli scrittore
non dire ottusità
il mondo non conosce il blu,
ma il nero, si il nero e null’altro,
ma è bello.

Ho qui nella testa
rumori fragorosi
e mi confondono,
a volte tenui
ma son dolorosi,
ti prego cuore mio
non pensare
i miei occhi vedono,
vedono stranezze,
volti senza occhi,
bocche sorridenti e infelici,
e presentimenti bui
e avvinti dalla mia mente
persa nell’oblio
della follia e dell’incertezza.

Quale singolare tenzone
volle il mio pavido cuore,
farfugli e cespiti di infruttuose menti
confuse e tristi mi irritano
ma son pur sempre
loquaci e assordanti,
di un saper vano freddo
e duro come l’acciaio
senza prima ne dopo
solo un presente
inutile fazioso e folle.

La lotteria della vita
mi ha scelto,
presto sarò fra coloro
che tutto sanno,
che privilegio,
ma perché i sentieri
son cosparsi di ombre affrante
hanno ali e son lucenti ombre,
avvolgenti ma fragili,
Dio mio che orrore,
ho incontrato la mia morte,
addio amici
quel che è fatto e fatto.



La mia stanza.


La mia stanza.

Distaccato è il mio cuore
entro questa stanza,
ricordi e pensieri lontani,
e boati di taciturni
ineffabili baci,
e…quante fragili serenità,
e quante preghiere innanzi al quel dipinto
di un Dio sempre più lontano…e poi vicino,
ma Egli è ormai stanco
di suppliche e preghiere,
sa che nulla fiorisce
sulla infeconda ardesia.

E la foto di un antico uomo
dal prominente addome
e dal fare saccente,
e dal suo discinto corpetto
pende la dorata catenella
che regge il grande orologio a cipolla,
il suo dito indice infilato a mò di sapere
nel capiente e trasandato taschino,
e pare che il suo sguardo sapiente
ammonisca e strabocca di ingiurie
verso il non erudito.

Il vecchio mobile che par scricchiolar
sotto il peso immane di una mosca
tanto audace quanto prepotente,
par quasi esplodere
e rilasciare i ricordi accumulati
in tempi lontani…ma vicini,
e quanta…quanta tristezza trasuda
il suo emaciato legno opaco
e stanco di custodire sogni
e speranze infrante.

Il vecchio orologio a pendolo esausto
ha fermato il suo dondolio
e poco importa
se le acuminate lancette segnano
di continuo la stessa ora,
so per certo che l’aver vissuto
quell’attimo ha inscenato l’epopea
di un successivo vivere,
e forse sarò eterno
se egli rimarrà immobile.

Lele Feola.



E sia

E sia

Soffi e sospiri aleggiano
e palpeggiano angoli reconditi
di un cuore stanco,
ed il cielo complice
con i suoi prodigi
di branchi di bianchi uccelli
e nuvole candide e rosse
imperversano
in un’alba strana e cupa
come il sangue di vittime
di un conflitto d’amore,
i cui unici superstiti
son gli amabili abbracci
di passate dolorose
e deliranti estasi.

Sia quel che sia,
mai ebbi e volli rimpianti,
ma di tal piaceri
spesso si perisce
e il dono, che l’uomo
chiamò intelletto,
che il buon Dio
erogò a suo piacimento
non mi coinvolse,
e certo seppe ingannarmi,
fui e rimasi semplicione,
ho compreso, non mi interessi più
mio deludente essere,
che Iddio ti aiuti.