La ricerca del Verbo in “IL BIANCO VOLTO DI DIO” dalla raccolta “A Sylvia Plath” di Ciro Sorrentino

“IL BIANCO VOLTO DI DIO” dalla raccolta “A Sylvia Plath” di Ciro Sorrentino

 

Nel tuo nulla astrale

sei fiato sullo specchio,

l’occhio vigile che fissa

il lenzuolo sul rigido corpo.

 

Come oasi nel deserto

disseti l’universo

e l’ambiguo mondo

nutri della tua scienza.

 

Va la tua musica

per la folla sorda e cieca

che non sa parlare

che alla gioconda Luna.

 

Sei indecifrabile fonte

la trasparente oscurità

che di amnio sangue

impreziosisce gli orizzonti.

 

Dell’immensa Stasi

mostri le velate distanze

che con la tua linfa

ingemmano l’albero sacro.

 

Possano le tue stille

di rossa rugiada

svelare della nera vastità

il bianco volto di Dio.

 

06.07.2014 Ciro Sorrentino

 

Per la nostra analisi partiamo dal titolo, “IL BIANCO VOLTO DI DIO”, che isola ed identifica, nella purezza del colore bianco, lo splendore, e, sul piano ascetico, simboleggia il paradiso e l’eternità.

 

È evidente l’intenzione di Sorrentino di rappresentare un oltre salvifico, freddo e silenzioso, immacolato, estraneo,  misterioso.

 

In questa dimensione sconosciuta, in tale imperscrutabile altrove è giunta la sua eroina/donna/poeta, Sylvia Plath, e a lei si rivolge, per cantarne l’immensità che l’ha liberata dalle umane fattezze, lasciandole finalmente la possibilità di poter essere libera di scrutare un mondo spento alla vita, quella vera che lei adesso sente respirando negli sconfinati giardini dell’infinito.

 

E basta guardarsi allo specchio, toccarlo per sentire il “respiro” di Sylvia, per comprendere la sua verità che è la verità della vita, e di tutti coloro che cercano di aderire ad una qualche fede, ad un briciolo di sanità che liberi dal dubbio e dall’afa sferzante di una realtà parcellizzata e dubbia.

 

A Sylvia Plath , la donna che ha avuto il coraggio di compiere il grande salto, e che ha scardinato la porta della bieca ignoranza, Sorrentino volge il suo cammino di ricerca, e segue le orme, gli indizi, le tracce da lei lasciate per sentire e percepire un sapere a tutti sconosciuto.

 

Ecco che il poeta cerca quel rifugio di sapienza che Sylvia Plath gli ha rimasto in eredità, e non per ripetere le sue scelte: Sylvia Plath è testimone di una verità e per aderire ad essa non c’è alcun bisogno di annientarsi: potremmo dire che per lei il passo è stato ineludibile, qualcuno doveva compierlo per rompere le catene dell’oscurità e guardare sotto le nere lastre cosa fosse celato.

 

E Sorrentino raccoglie gli echi della voce di Sylvia, li fa rivivere nella sua voce, nell’armonia di intenti proprio come la poetessa statunitense avrebbe voluto, lei che incompresa scriveva cercando la perfezione della parola per farsi capire e rendere pubblica una verità perduta nel deserto d’amore e conoscenza.

 

Ancora una poesia, dunque, nella quale l’identificazione Sorrentino/Plath è dichiarata e totale, versi che si rivolgono a tutti coloro che stoltamente vanno in giro per il mondo senza sapere né chiedersi perché, una folla apatica che si annulla nelle vane chimere.

 

Le tre strofe finali sono un inno alla natura di Sylvia, la descrizione della sua deità: è Sylvia una sorgente di conoscenza, la primigenia e misteriosa fonte da cui discende linfa d’amore e conoscenza.

 

Ne deriva che Sylvia ha scritto con le stille del suo sangue sacrificale una verità indiscutibile, ha mostrato che bisogna vivere in modo da poter vedere al di là delle apparenze e delle formalità per cogliere i frutti di quell’ “albero sacro” che annullano i veli dell’oscurità e guidano a Dio.

 

08.07.2014 Dipartimento di Lettere e Filosofia, prof. ATTILIO BELTRAMI

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1 Commenti

  1. Ciro Sorrentino Scrive:

    Hai “circoscritto” con grande maestria il luogo metaforico e dichiarativo di questa poesia.
    Ti ringrazio,
    Ciro Sorrentino.

    ... on July luglio 8th, 2014

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