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Letteratura Poeti Famosi



La deificazione della donna in “UN REMOTO ALFABETO TAGLIENTE” di Ciro Sorrentino

UN REMOTO ALFABETO TAGLIENTE

 

Ogni volta muoio e rinasco

nelle vite di un gatto,

e sempre la mia anima

si apre al sorriso amandoti.

 

Così ritorno ai giorni uguali,

mi rigiro e brucio,

ardo come legna secca

che scoppietta per riscaldarti.

 

Ma impera un gelo d’inverno

e come un ciottolo

invano sogna acqua di torrente,

così attendo la tua rosea rugiada.

 

Maliziosi in folla guardano

 le conchiglie svuotate,

sulla fredda sabbia che mai

sentirà il passo delle tue orme.

 

Prima di loro l’aria era colma

della luce di nuova luna,

ora è tutto confuso e nero,

un remoto alfabeto tagliente.

 

28.02.2014 Ciro Sorrentino

 

Prima ancora di analizzare le motivazioni che spingono Sorrentino a scrivere questi versi, carichi di “realismo magico” (direbbe Massimo Bontempelli), è da soffermarsi sul titolo, “UN REMOTO ALFABETO TAGLIENTE”, che esplicita subito l’idea di ricondurre l’ipostasi del discorso in un tempo preciso e definito, un tempo primordiale che detta la storia della vita e degli eventi che formano o deformano i sentimenti.

 

Dunque, c’è un primordiale “abicì” dell’armonia che, per l’intervento di qualcuno o di qualcosa, è diventato altro dalla spontaneità e dal candore delle percezioni d’amore: “alfabeto”, come a dire un mezzo di cui servirsi per capire e comunicare, lo strumento attraverso il quale esprimere il fondo immacolato della propria anima a chi ascolta.

 

Viene da chiedersi perché Sorrentino si soffermi e formalizzi questo titolo che chiude, in definitiva, la stessa poesia.

 

La risposta potrebbe sembrare palese ed evidente: in tanti testi l’autore usa queste modalità per significare e condensare il contenuto tematico del suo rappresentare le emozioni.

 

Eccoci al punto nodale della nostra ipotesi critica: in questa occasione Sorrentino sottolinea una mancata rappresentazione del sé: il poeta si allontana dalla linea guida del suo comporre, si avverte il suo bisogno di mettere subito in risalto che la condizione morale e psicologica che lo colloca in una situazione senza via d’uscita, non proviene dal suo mondo interiore, ma da una serie di circostanze che costituiscono ostacoli e impedimenti alla sua ricerca di una partecipazione e compartecipazione affettiva.

 

Il poeta si ritrova come schiantato in un mondo perfido che fa franare, sotto i suoi passi, la terra e ogni possibilità di raggiungere, in fondo alla via, quelle fluorescenze luminose che provengono probabilmente dall’isola dispersa e abbandonata della sua amata.

 

La realtà, o quantomeno, quella che spesso Sorrentino definisce come una “parvenza dell’arcano mistero” si popola di individui oscuri che pregiudicano la conoscenza e la comprensione, ma non già dello scibile, bensì dell’amore e della sua verità, della sua purezza, del suo disinteressato donarsi.

 

Ma, venendo all’esordio dei primi versi, si intuisce subito che la situazione nella quale Sorrentino si trova è un retaggio che si ripete puntualmente, un’esperienza così dolorosa che gli trapassa il cuore e la mente, schiantandolo e consumando le sue energie fino all’annullamento del sé.

 

Esaustivo il paradigma che lo apparenta, almeno nella convinzione generale, al gatto e alle sue nove vite, quelle che gli ridanno lo slancio di rialzarsi e nuovamente riprovare ad avvicinare l’amata, la donna che nel suo essere si ripresenta perennemente come eroina sfuggente di una fiaba “capovolta”.

 

L’onestà intellettuale e morale del poeta sta nel ribadire che egli non cerca, nel suo risorgere, altre donne per dissetare la sua fame di essere ricambiato sul piano del tendersi la mano per camminare insieme nei sentieri della vita.

 

No, egli non si prova a sperimentare altri amori; sempre e comunque, come l’ “araba fenice” si rialza e va incontro alla sua regina, maestosa creatura al femminile che da un tempo immemore ha avvolto e rapito in suoi pensieri, la sua voglia di sorridere e di “leggere”, nei suoi occhi, la verità ultima, quel “Ti amo” che, in tante sue opere, Sorrentino sente echeggiare nel mondo di Fantàsia, da lui magistralmente descritto e sublimato nella fluidità dei suoi versi.

 

Eppure, ancora una volta, e non è dal poeta dichiarato quante “vite di gatto” ha già consumato, il suo io si ritrova perso e sfiduciato, nella monotonia dei giorni, nella ripetitività dei gesti che lo consumano dal di dentro: egli si “rigira” come un ceppo nel camino per ravvivare la sua fiamma, renderla più marcata e scricchiolante, calda…, una calda fiamma d’amore che si dichiara e si innalza forte e potente per riscaldare il cuore di tale creatura angelica che lo sovrasta e che sembra “distanziarsi” dal suo amore.

 

Ed è estremamente pietoso immaginare questa fiamma che si leva da un cuore che si protende verso un cielo dove il poeta vorrebbe “assorbirsi” per congiungersi al cuore della donna che è così distante alla terrestre vita.

 

In questo luogo poetico Sorrentino fornisce la chiave per la deificazione della sua “imago”, la donna viene deificata e assolutizzata nella figura miracolistica della gioia e della estrema sacralità.

 

La “distanza”, una distanza che tante altre volte Sorrentino ha sottolineato, nelle sue poesie del suo irreversibile pessimismo, si costituisce e rappresenta come impossibilità di rappresentarsi per quello che si è, al punto che per quanto sforzi egli compia, mai e poi mai gli è concesso di aderire alla pienezza dei sentimenti.

 

Questo a nostro intendimento il significato sotteso alla similitudine del “ciottolo” che sembra avere una sua inspiegabile vita minerale, tanto da consentirgli di fantasticare; e come quel sasso arso dalla secca della pioggia attende che il letto del fiume si riempia, così il solitario poeta aspetta stille e gocce di amore e di linfa vitale provenire dalle parole “Ti amo”.

 

Questa speranza, frana e il richiamo al postulato iniziale delle nove vite del gatto, si carica di un’amarezza che assume i toni del tormento e del dramma irresolubile.

 

Qualcuno potrebbe supporre che questo desiderio giunge a dissolversi perché involve su se stesso, essendo vissuto  a senso unico, ma non è così.

 

Magistralmente Sorrentino ha velato le circostanze fortuite e le situazioni “pregiudiziali” che impediscono l’esplosione d’amore nella successiva strofa, laddove afferma “…prima di loro l’aria era colma della luce di nuova luna…”.

 

Ciò significa, senza tema di smentita, che personaggi oscuri (“maliziosi in folla guardano le conchiglie svuotate…”) e situazioni particolari hanno reso ancora una volta irraggiungibile una fusione miracolistica che si identifica come forma di bene assoluto.

 

Questa lirica non poteva che chiudersi e racchiudere la sua conclusione in un verso di rara e magnifica raffinatezza stilistica e poetica, in quelle “conchiglie (leggasi speranze) svuotate, sulla fredda sabbia che mai sentirà il passo delle tue orme”.

 

Di fronte a questa immagine di delicata sofferenza e di dolente pena, al lettore, e allo scrivente, non può che scendere una lacrima di solidarietà e di condivisione, una “condivisione” che nasce dall’universalità del messaggio che Sorrentino ha voluto dare: il suo tormento, la sua pena, il suo pianto sono gli stessi che tanti innamorati vivono e patiscono morendo e rinascendo ad una vita che sempre incanta e illude.

 

01/03/2014 Letterature Comparate, prof. Cinzia de Rosis

This entry was posted on sabato, marzo 1st, 2014 at 15:40 and is filed under Articoli. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. Both comments and pings are currently closed.

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